Con una recentissima pronuncia la Suprema Corte ha confermato il principio in base al quale “il lavoratore precario che ha lavorato per la stessa amministrazione in un arco temporale con diversi contratti a tempo determinato non può essere trattato in maniera deteriore rispetto al lavoratore assunto a tempo indeterminato”, a meno che non sussistano ragioni oggettive che giustifichino la disparità (Cass. civ., sez. lav., 06/04/2020, n. 7705).
Tale giudizio si pone in linea con altri già espressi dalla stessa Corte in materia di contratti a tempo determinato nel settore scolastico (ex plurimis, Cass. n. 22558/2016) e di contratti a tempo determinato stipulati con gli Enti di Ricerca (Cass. 2795/2017; Cass. n. 7112/2018, Cass. n. 3473/2019; Cass. n. 6146/2019).
Nelle indicate pronunce la Corte di Cassazione ha richiamato il principio di non discriminazione previsto dalla clausola 4dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, di cui alla direttiva 1999/70 CE, nella parte in cui stabilisce che “per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”.
La summenzionata clausola è stata più volte interpretata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha evidenziato chela direttiva ivi contenuta si applica ai contratti ed ai rapporti di lavoro conclusi con le amministrazioni e con gli altri enti del settore pubblico ed esige che sia esclusa qualsiasi disparità di trattamento tra dipendenti pubblici di ruolo e dipendenti pubblici temporanei. I secondi, infatti, sono comparabili ai primi per il solo fatto che lavorino a tempo determinato, a meno che la disparità di trattamento non sia determinata da ragioni oggettive, ovvero da elementi precisi e concreti che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha, inoltre, sottolineato che le maggiorazioni retributive che derivano dall’anzianità di servizio del lavoratore costituiscono condizioni di impiego ai sensi della citata direttiva, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva.
Occorre, inoltre, ricordare che l’interpretazione delle norme eurounitarie è riservata alla Corte di Giustizia, le cui pronunce hanno carattere vincolante per il giudice nazionale poiché a tali sentenze, siano esse pregiudiziali o emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto dell’Unione Europea, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito dell’Unione.
Conseguentemente, il principio di non discriminazione innanzi richiamato comporta per gli Stati membri l’obbligo di assicurare al lavoratore a tempo determinato condizioni di impiego che non siano meno favorevoli rispetto a quelle garantite all’assunto a tempo indeterminato “comparabile”.
Sulla scorta di ciò, l’ultima pronuncia in materia della Corte di Cassazione si inserisce perfettamente nel solco dell’orientamento giurisprudenziale tracciato dalla stessa. Nel caso di specie gli Ermellini, nell’affermare che nel passaggio dal precariato alla stabilizzazione non vi era stato alcun mutamento delle condizioni lavorative delle lavoratrici (controricorrenti), hanno indicato come unico elemento di differenziazione quello della natura, a termine e non a tempo indeterminato, del rapporto.
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