Sovente la giurisprudenza di legittimità si è soffermata sul concetto di giusta causa di licenziamento al fine di individuare quei comportamenti idonei a ledere il vincolo di fiducia che dovrebbe regolare il rapporto di lavoro tra dipendente e datore di lavoro.
Sulla scorta di una recente pronuncia la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice per aver ripetutamente indicato orari di inizio e fine trasferta diversi da quelli effettivi, così da fruire del corrispondente e più favorevole trattamento economico, nonché per avere acquistato direttamente, in violazione delle disposizioni aziendali, i biglietti ferroviari relativi a undici trasferte.
Relativamente alla suddetta condotta, la Corte ha ravvisato la sussistenza di “artifizi o raggiri” tali da integrare l’elemento materiale del delitto di truffa, così come disciplinato dall’art. 640 c.p.
Di conseguenza, è stato possibile affermare che siffatte dichiarazioni menzognere, presentate in modo tale da indurre in errore il soggetto passivo di cui viene carpita la buona fede, rivestano il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia sotteso al rapporto di lavoro (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 4 marzo 2020 n. 6095).
Altre sono state le circostanze in cui la gravità della condotta del lavoratore, sussumibile nella cornice delittuosa della truffa, ha comportato de facto il venir meno dell’elemento fiduciario di cui trattasi.
Una di queste è quella relativa al licenziamento della cassiera di un supermercato la quale, accreditando indebitamente sulla sua carta punti l’importo della spesa effettuata da altri clienti, ha accumulato una somma rilevante da poter spendere sotto forma di sconti. Seppur con riferimento ad un danno economico esiguo, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo, nel caso di specie, il recesso datoriale per giusta causa, ponendo l’accento sul notevole inadempimento degli obblighi contrattuali perpetrato dalla lavoratrice ai danni del datore di lavoro (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 24 luglio 2017 n.18184).
Medesima considerazione può essere effettuata nel caso in cui ci si ritrovi dinanzi all’abusivo impossessamento di beni aziendali da parte di un dipendente.
Nei confronti di un simile atteggiamento gli Ermellini, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, hanno ritenuto di dover prendere in considerazione non l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all’adempimento dei suoi obblighi (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 24 febbraio 2012 n. 2866).
Può, infine, ritenersi legittimo anche il licenziamento di quel lavoratore sorpreso nel timbrare il badge identificativo di un collega, al fine di farne risultare la presenza sul posto di lavoro prima dell’orario effettivo d’arrivo. Per la Corte una tale condotta, posta in essere per trarre in inganno il datore di lavoro, è senza dubbio in grado di ledere il vincolo fiduciario che, in collegamento diretto con i doveri di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c. c., caratterizza il rapporto di lavoro subordinato. Sulla scorta di ciò, la sanzione del licenziamento appare proporzionale alla mancanza commessa (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 7 dicembre 2010 n. 24796).
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